“L’ossigeno che illumina il buio del dolore. Un viaggio nel Centro Iperbarico di Ravenna” ecco il racconto che ha vinto il Premio Guidarello Giovani
Questo racconto, premiato nella XII edizione del Premio Guidarello Giovani nella categoria reportage letterario, è stato scritto dai ragazzi della 2^H del Liceo Artistico di Ravenna.
La storia, seppure molto veritiera, è frutto della fantasia dei giovani studenti che hanno saputo interpretare con grande empatia il percorso di cura seguito di molti nostri pazienti.
L’ossigeno che illumina il buio del dolore.
Un viaggio nel Centro Iperbarico di Ravenna
Mi chiamo Tommaso ho 16 anni e sono sempre stato un ragazzo fortunato.
Posso dire di avere sempre avuto tutto e di piacere, da sempre, a tutti ma non ho mai pensato che le cose nella mia vita potessero cambiare completamente da un giorno all’altro.
E invece, da un giorno all’altro, eccome se possono cambiare le cose!
Per me sono cambiate la sera del 14 agosto 2017. Ero in macchina con i miei genitori e stavamo andando a Marina di Ravenna. Mi avrebbero lasciato davanti all’entrata del Bagno Sottomarino e io, avrei fatto l’alba in spiaggia con i miei amici. I miei non erano molto contenti di lasciarmi lì per tutta la notte ma io ero contentissimo, e cercavo di non farlo vedere per non farli preoccupare ancora di più. Quella sera però, io non ci sono mai arrivato al Bagno Sottomarino.
Perchè mentre papà guidava tranquillamente per Via Trieste, il guidatore di un’altra macchina che percorreva la corsia opposta e che stava scrivendo un messaggio al cellulare, ha sbandato e ci è venuto addosso. La nostra macchina è stata sbalzata all’indietro, la macchina che ci seguiva non è riuscita a frenare in tempo e noi, siamo finiti nel fosso.
Ma io non mi ricordo niente dell’incidente. Ricordo di essermi svegliato un attimo non so quando e di aver visto intorno a me dei medici, con le mani e i vestiti sporchi di sangue. E ricordo che non riuscivo nè a muovermi nè a tenere gli occhi aperti. Poi, di nuovo il buio.
Quando mi risvegliai per bene, ero steso sul letto di un ospedale. Mia mamma teneva la mia mano e piangeva, mio babbo teneva la mano sulla spalla di mia mamma e piangeva e io avevo una flebo infilata nel braccio e tanto male dappertutto.
I miei mi raccontarono subito dell’incidente, mi dissero che la nostra macchina era diventata un cartoccio di lamiere ma che noi non eravamo morti.
Eravamo stati “m i r a c o l a t i” dissero anche se io, in quel momento, avevo un male addosso che non ne potevo più. Mi spiegarono che loro erano usciti praticamente indenni dall’incidente mentre io, avevo la gamba destra fratturata e un brutto taglio che mi partiva dal polpaccio e mi arrivava al piede destro. Ero stato operato, mi dissero. Tutto passerà presto, dissero anche. Da steso, provai ad alzare un pò la testa per guardare il mio corpo. Tutto era super fasciato e super immobile. Provai a muovere le dita del piede. Non si mosse niente.
Dopo diciotto giorni fui dimesso e passai dal letto dell’ospedale al letto di casa. Cominciai la riabilitazione e dopo circa un mese, ricominciai a camminare con le stampelle. Ma la ferita non migliorava. Il mio polpaccio e il mio piede rimanevano gonfi, caldi e rossi e io avevo un male cane.
Mi vennero cambiati più volte gli antibiotici e mi fu pulita chirurgicamente la ferita che però rimaneva infetta e nessuno trovava una soluzione efficace.
Un giorno, uno dei medici che mi stava curando propose ai miei, una terapia da fare al centro iperbarico di Ravenna, perchè lì si occupano anche della cura delle ferite difficili, disse, e le ferite difficili molte volte portano all’amputazione dell’arto, disse anche. Ecco, questa sua ultima frase non mi piacque per niente e probabilmente non piacque neanche ai miei genitori perchè decisero immediatamente di cominciare questa nuova cura. Io, che di quel centro non avevo mai sentito parlare prima, fui d’accordo perchè ero stanco di stare male.
Quando la macchina nuova di mio padre imboccò la via del Centro Iperbarico di Ravenna era lunedì e quando parcheggiò, quel posto mi sembrò un edificio abbandonato in mezzo a tanti alberi spogli. I muri erano grigi e il grande parco intorno era pieno di foglie secche. Ormai era autunno e c’erano foglie secche dappertutto. Non mi sentivo a mio agio perchè quel luogo, dal di fuori, era per me poco rassicurante. Una volta entrato però, fu molto diverso. I corridoi erano ordinati, puliti e azzurri, come in un normale ospedale e c’era odore di pulito, di medicine e di sterilizzato. Una signora gentile accoglieva i pazienti e dava loro le informazioni per le visite specialistiche e le indicazioni per le terapie. Quando toccò a noi, la signora gentile ci spiegò dove dovevamo accomodarci per aspettare la visita con il direttore sanitario del centro, il Dr. Longobardi.
Io zampettai con le mie stampelle fino alla sala d’aspetto dello studio del Dr. Longobardi e nel corridoio fui colpito dai panini al tacchino disponibili nel distributore per gli snack vicino alla macchinetta per il caffè e poi da un gruppo di persone vestite di azzurro che stavano uscendo da una porta rossa a soffietto con dei calzari ai piedi che sembravano sacchetti, azzurri anche quelli. Non le guardai per molto però perchè mia mamma mi chiamò ed entrammo nello studio-ambulatorio del dottore.
Il Dr. Longobardi era seduto dietro la sua scrivania e quando entrammo si alzò in piedi, ci salutò e ci fece accomodare davanti a lui. Noi ci sedemmo, lui mi chiese quanti anni avevo e come stavo. Io gli dissi che avevo sedici anni e un male addosso che non mi faceva mai dormire di notte e poi lui guardò la mia cartella clinica e cominciò a parlare con i miei genitori di quello che era successo. Disse che sì, che probabilmente quello era il posto adatto a guarirmi e poi cominciò a spiegarci un sacco di cose.
Ecco adesso, per essere sincero, io dividerei la sua spiegazione in due parti.
La prima parte per me, devo ammetterlo, è stata un pò noiosa però è piaciuta tantissimo a mio babbo che adora la fisica e adora “immergersi nelle profondità degli abissi”, come dice lui quando d’estate va sott’acqua con le pinne e la maschera davanti a Marina di Ravenna.
La seconda parte della spiegazione invece, per me è stata molto affascinante.
Il Dr. Longobardi cominciò a raccontarci che il Centro iperbarico di Ravenna era stato realizzato nel 1989 da Franco Nanni, Faustolo Rambelli e Roberto Nanni soci della società RA.NA di Marina di Ravenna, leader nel settore dell’assistenza dei lavoratori dell’offshore, cioè di chi fa il subacqueo di professione ed è costretto ad immersioni che durano lunghe ore o giorni interi.
Ci disse che fino al 1970 non si sapeva bene quali potessero essere gli effetti della camera iperbarica sull’essere umano ma poi alcuni esperimenti ed esami avevano dimostrato che i parametri del sangue miglioravano nettamente dopo una “OTI” cioè dopo una ossigenoterapia iperbarica. E quindi i soci della RANA decisero di aprire il centro iperbarico di Ravenna e poi quello gemello di Bologna che erano centri privati ma convenzionati con il sistema sanitario nazionale.
Ci spiegò poi che l’ossigenoterapia iperbarica consiste nel respirare ossigeno puro in una particolare camera, chiamata appunto “camera iperbarica” nella quale la pressione interna viene aumentata e portata fra 1,7 e 2,2 atmosfere assolute.
Io, di quello che stava dicendo il Dr.Longobardi, non ci stavo capendo niente. Non sono mai stato bravo in fisica io, ma mio padre, era in estasi.
«Quindi entrare in una di quelle camere, è come scendere fino a 20 metri di profondità» chiese anche, «Esatto» rispose il Dr.Longobardi «e la pressione, aggiunse, permette una diffusione dell’ossigeno nel sangue in maniera dieci volte più concentrata rispetto a quella normale favorendo la circolazione sanguigna in tutti gli strati della pelle che riescono più facilmente a rigenerarsi. E tutte queste cose sono fondamentali per la ferita di suo figlio». Mio babbo era in estasi. Io non tanto. Poi però il Dr. Longobardi mi chiese di spostarmi sul lettino dietro di lui e lì, mi scoprì la ferita. La mia gamba destra, da sopra il ginocchio fino alla punta delle dita del piede era violacea, gonfia e calda. A me faceva schifo. Mi faceva venire in mente lo zampone che mia nonna cuoce per Capodanno. Però la mia gamba non era affogata nelle lenticchie quindi almeno qualche differenza c’era ancora.
Il Dr. Longobardi spense la luce nell’ambulatorio. Pensai che forse la mia gamba facesse schifo anche a lui. Poi prese in mano una specie di smartphone un pò più grande del normale e, nel buio, cominciò a fotografare la ferita.
Siccome sono un cretino, pensai anche di chiedergli di girarmi le foto per postarle sul mio profilo Instagram ma per fortuna non feci in tempo a dire niente perchè lui cominciò a spiegarci delle cose.
E dal di lì, cominciò per me la parte affascinante. Mi fece vedere le foto della mia gamba nello schermo di quel grande telefono. Lo strumento che stata usando si chiamava MolecuLight e serviva a definire meglio i batteri dannosi che stavano “mangiando” la carne della mia gamba per poter meglio individuare le terapia da seguire. Guardai le foto. Mi sembrava di vedere una striscia verde, tipo aurora boreale circondata da striature rossastre e violacee. E invece, stavo guardando il marcio della mia gamba. Quando lo dissi al Dottore, si mise a ridere, riaccese la luce, chiamò un’infermiera per richiudermi la ferita e poi ci disse tre cose: disse che la mia guarigione sarebbe cominciata la mattina successiva; che le terapie alle quali dovevo essere sottoposto si chiamavano “terapia Frems” e “LumiHeal KLOX” associata a ossigenoterapia iperbarica OTI” e che in 90 giorni io sarei tornato un ragazzo sano. Mi piacque molto quello che disse. Soprattutto l’ultima parte.
Dal giorno dopo cominciai le terapie. E le giornate divennero per me tutte molto simili.
Mia Mamma o mio babbo mi venivano a prendere da scuola e mi portavano al centro iperbarico. Scendevo dalla macchina, entravo, lasciavo le stampelle in uno spogliatoio e mi accomodavo su una sedia a rotelle. Poi un’infermiera, sempre diversa e sempre bella, mi spingeva attraverso i vari ambulatori. La tappe-trattamento, in ordine di durata, erano tre.
La prima era il “LumiHeal KLOX”, durava dieci minuti e dovevo farlo ogni quattro giorni. Dentro l’ambulatorio, dalla sedia a rotelle mi spostavo su di un lettino. L’infermiera mi scopriva la ferita e me la puliva, mi faceva un male cane ma io sopportavo, mi spalmava del gel fotoluminescente e poi mi accendeva sulla gamba una lampada a led che emetteva, ad intermittenza, della luce blu (che serviva a ridurre il dolore), della luce verde (che stimolava la produzione delle mie cellule) e della luce arancione (utile a rimpicciolire la ferita).
La seconda tappa-trattamento era la “FREMS terapia”, durava trenta minuti e dovevo farla ogni due giorni. Sempre steso su un lettino mi venivano applicati dei piccoli elettrodi sulla gamba ed era utile per farmi diminuire il dolore e per aumentare la vascolarizzazione della zona, mi diceva ogni volta l’infermiera.
Per la terza tappa-trattamento venivo trasportato dietro la porta rossa a soffietto che avevo visto il primo giorno. Dovevo indossare la stessa camiciola azzurra e gli stessi sacchetti azzurri ai piedi che avevo visto addosso alla gente il primo giorno. Dietro la porta rossa c’erano le due camere iperbariche del centro. Erano due piccoli sottomarini bianchi affiancati e pluriposto perchè le camere monoposto sono vietate in Europa, mi aveva raccontato il tecnico che mi aveva aperto il portellone del “sottomarino” di destra la prima volta. Quando entrai non mi sentii a mio agio, non mi è mai piaciuto stare negli spazio chiusi e molto piccoli e poi, c’erano altre quattordici persone sedute dentro e lo spazio sembrava ancora meno.
Quando cominciò a salire la pressione dentro la camera, sentii le mie orecchie tapparsi come quando vado in montagna e salgo ad alta quota con la funivia, l’assistente ci disse di stare calmi e di metterci la mascherina. La posizionai sul volto, era attaccata a due tubi; da uno arrivava l’ossigeno, dall’altro usciva il mio respirato.
Non mi piaceva tanto questa terapia. Non era dolorosa ma durava un’ora e mezza e perchè dovevo farla tutti i giorni. Venivo chiuso tutti i giorni in un “sottomarino”, come avevo cominciato a chiamarlo io, dove veniva ricreata la pressione che c’è a 20 metri di profondità e poi dovevo respirare dell’ossigeno puro con la mascherina. Quell’ora e mezza non passava mai. Anche perchè lì dovevi solo stare seduto immobile e respirare ossigeno per venti minuti, toglierti la mascherina per due minuti, poi rimetterti la mascherina per altri venti minuti e avanti così per un’ora e mezza. Ogni tanto c’era musica in filodiffusione oppure ci si poteva portare un libro ma dato che a me non piaceva leggere e la musica era… per un pubblico più “stagionato” di me, diciamo, iniziai a fare amicizia con gli “assistenti sanitari” che dovevano rimanere dentro con noi ad ogni seduta.
Uno di loro mi parlò del suo lavoro e di come si sentiva fiero di aiutare tutte le persone che passavano di lì, salvando migliaia di vite l’anno tra le quali, in effetti, c’era anche la mia. Mi spiegò che in ognuna delle camere iperbariche del centro, si potevano effettuare dalle dieci alle dodici sedute al giorno mentre ciascun assistente poteva entrare solamente una volta al giorno per evitare patologie da compressione.
Dopo ventidue giorni continuativi di terapie, cominciai ad avvilirmi.
Io non avevo più la vita di un sedicenne. Non giocavo più a calcio, non avevo ripreso gli allenamenti dopo l’estate, non vedevo più i miei amici. E soprattutto, il male non passava e la gamba non cambiava. Non cambiava mai niente, stesso odore di sterilizzato, stessi infermieri, stessi tecnici, stessi panini al tacchino dentro le macchinette, stessa camera iperbarica, stesse persone dentro la camera iperbarica e ormai tutto girava intorno a quel cavolo di sottomarino bianco con le mascherine appese dentro.
Poi, successero due cose.
Un pomeriggio insieme a me, dentro al sottomarino, c’erano solamente altre tre persone, due uomini e una donna. Erano tutti abbastanza vecchi, infatti avranno avuto quaranta o cinquant’anni e uno dei due uomini, mi chiese subito che cosa mi fosse successo. Io raccontai quello che mi era successo poi, raccontò lui. Era caduto dalla moto mentre tornava a casa da una festa. Aveva bevuto troppo, aveva perso il controllo del veicolo e il parafanghi gli aveva procurato un lungo squarcio sulla gamba sinistra. Veniva da Trecate vicino a Novara per curarsi lì. Era venuto a Ravenna perchè l’Iperbarico di Ravenna era un centro all’avanguardia, disse. Guardai la mia gamba fasciata poi guardai la sua. Era grossa quattro volte la mia. «Me la devono amputare» disse, «Questa è l’ultima possibilità che mi rimane» «Anche a noi» disse la donna. Lei e suo marito, l’uomo che le sedeva vicino, erano diventati improvvisamente sordi dopo un’immersione nel mar Rosso e questa, era la loro “ultima spiaggia” disse, poi mi sorrise, con una tristezza infinita negli occhi. Suo marito non aveva sentito neanche una parola di quello che aveva detto lei, era chiaro a tutti, però sorrise, e basta.
Devo ammettere che questa cosa mi fece pensare molto e mi fece sopportare la terapia in maniera più facile ecco. Più adulta, direbbe mio padre.
Poi successe anche che una mattina mi svegliai e mi resi conto di aver dormito tutta la notte. Avevo dormito tutta la notte. Quel dolore perpetuo che da agosto non mi faceva dormire, era sparito. Toccai la mia gamba, pulsava di meno, era meno calda.
Forse allora sì, pensai, forse allora le cure stavano funzionando. Forse potevo ricominciare ad avere 16 anni.
In un certo senso mi trasformai dopo quelle due cose che mi erano successe. Le terapie iniziarono a non essere poi così tanto noiose, gli infermieri erano ancora più simpatici e gentili, i medici erano ancor più bravi del loro essere veramente bravi e anche i panini al tacchino mi sorridevano dalla macchinetta, ma soprattutto, quando cominciai a vedere tutti quei miglioramenti nel mio corpo e quando iniziai a non sentire più il dolore perpetuo che mi faceva stare sveglio la notte, ecco, quei giorni di cura diventarono piacevoli. Non li consideravo più come una tortura quotidiana ma come la reale possibilità, finalmente, di poter guarire.
Ho ricominciato a giocare a calcio il 4 gennaio 2018 e ho fatto il mio primo gol il 2 febbraio. Ho 16 anni, sono sano e questo è stato possibile grazie alle persone straordinarie che ho incontrato al Centro Iperbarico di Ravenna.
Perchè come mi ha detto il Dr. Longobardi la prima volta che ci siamo incontrati, le risorse più importanti sono e rimarranno sempre le persone.
Post Scriptum:
A marzo 2018 ho letto con piacere, sul giornale, che “i numeri” che il Centro Iperbarico di Ravenna ha fatto nel 2017 sono stati i seguenti:
– 1.079 sono stati i pazienti trattati in camera iperbarica pari a 18.187 terapie eseguite; – per le 18.187 terapie, le camere iperbariche sono state compresse 2.548 volte comprendendo nel conto anche i 66 trattamenti effettuati in emergenza;
– 2.798 sono state le ore di lavoro dei compressori per comprimere le camere iperbariche;
– 261 sono stati i pazienti visitati e curati dai (bravissimi!) medici e dagli (spettacolari!) infermieri del Centro Cura Ferite Difficili (CCFD) (fra i quai ci sono stato anch’io eh!);
– 67.233 sono stati i metri di bende usate per le medicazioni del Centro Cura Ferite Difficili (e chissà quanti metri avranno usato solamente per me!)
– 14.254 sono stati i caffè erogati dal distributore del Centro e necessari per realizzare tutto questo;
– nessuna notizia invece è pervenuta sui panini al tacchino.
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